Un secolo di storia a Vetto, uno spaccato di vita montanara
Località:
42020 Vetto
Tipologia:
Riti e credenze: Storia di vita a Vetto
Testimonianze:
Descrizione
Nel secolo scorso, salvo rarissime eccezioni, famiglie patriarcali di Vetto lavoravano una terra spesso strappata ai greti dell'Enza e del torrente Lonza o ai boschi che, nel 1876, si estendevano per oltre 481 ettari. Oltre al frumento e al granoturco (dai quali si ottenevano pane e polenta) i contadini "curavano" in modo speciale il castagno che dava castagnaccio, pane, sughi, balleri, polenta, caldarroste e serviva per la costruzione di doghe per le botti, di attrezzi agricoli e mobili, soprattutto di madie e cassapanche. Se l'annata era buona, il 28 ottobre andavano a vendere i marroni alla Fiera di San Simone, a Montecchio. Di solito, le castagne venivano essiccate in edifici rustici, chiamati "metati", in cui il fuoco era sempre acceso e, nelle lunghe serate autunnali, era attorniato da paesani che si riunivano per chiacchierare, ridere, scherzare, cantare e raccontare fole. A supporto dell'agricoltura e della silvicoltura (sovente, il legname tagliato nelle macchie di Gottano veniva "fluitato" lungo l'Enza e fatto arrivare a Ciano o a San Polo dov'era messo in vendita o portato a Reggio o nei maggiori centri della pianura) c'era la pastorizia. Poca cosa, in verità, perchè, se diverse famiglie allevavano le pecore, il numero di capi era sempre molto limitato e, di solito, strettamente sufficiente a fornire il latte ai bambini e la lana da cui ricavare maglie ed altri indumenti per grandi e piccini. A quest'ultima esigenza erano collegati "il filino" (la sera, soprattutto d'inverno, le donne di ogni borgata si riunivano in una casa o in una stalla e filavano, sino a tarda notte, chiacchierando o cantando) e la tessitura, tradizioni scomparse verso il 1950 – '55. La crescita demografica dell'inizio del Novecento spinse parecchi vettesi ad emigrare in Francia dove trovarono lavoro specialmente nelle cave di pietra di Dramont, vicino a Saint Raphael. La fatica era estenuante, ma i "palanconi" d'argento che, almeno una volta all'anno, riuscivano a portare in patria permettevano ai loro famigliari di sopravvivere con minori preoccupazioni, di acquistare un pezzo di campo o un bosco o un paio di mucche o di sistemare la casa. I più fortunati riuscirono a farsi assumere in cantieri edili o in ristoranti di Parigi e Versailles e, a distanza di qualche anno, vi trasferirono l'intero nucleo familiare. La "via francese" restò aperta fino allo scoppio della prima guerra mondiale, allorchè gli eventi bellici, richiamando in Italia molti emigrati ed obbligando diverse "leve" di giovani a raggiungere il fronte, provocarono una miseria ancor più nera. Intanto, per rafforzare i collegamenti tra Vetto e il dirimpettaio Comune parmense di Neviano degli Arduini, venne "gettato" sull'Enza il "Ponte del Pomello", ultimato nel 1914. Negli Anni Venti, cominciò poi quell'emigrazione a Milano che, rafforzatasi negli Anni Cinquanta, è ormai finita. Questa volta, non furono i padri ad andarsene, ma i figli, generalmente "bocia" o ragazze di 13 – 17 anni. I primi facevano i lavapiatti, i garzoni al "verziere" o in botteghe artigiane, gli operai; le seconde prestavano servizio (come domestiche, cameriere o "balie asciutte") nelle case dei benestanti. Il periodo fra le due guerre vide l'affermazione dei "piciarìn", gli scalpellini che lavoravano le pietre estratte e tagliate (già alla fine dell'Ottocento) specialmente dalle cave del Faille e di Tizzolo ed apprezzate per essere "vive", d'un bel colore azzurrognolo, uniforme, senza venature o striature ed adattissime ad essere ridotte, con mazza e cunei e senza sprechi, in blocchi quasi squadrati alla perfezione. Da questi parallelepipedi, gli artigiani – artisti locali ricavavano, con martello e scalpello, "bolognini" e angolari per case e chiese. Dalle pietre di maggior dimensione, ottenevano pezzi per costruire portali e archivolti di dimore patrizie in tutto il Reggiano ed anche in altre province e per erigere monumenti ai caduti, come quello che domina Castelnovo Monti. Per apprendere o per insegnare i segreti del mestiere, vennero quassù abili scalpellini anche dal Modenese, dal Parmense e dal Veneto. Terminato il secondo conflitto mondiale, la "ricostruzione" fu lenta e difficile: l'economia languiva, le iniziative pubbliche e private erano scarse, l'agricoltura poco redditizia. L'emigrazione restava una delle poche valvole di sfogo ai tanti problemi socio – economici che si erano creati. Così, se nel 1951 la popolazione sfiorava i 4.000 abitanti, dieci anni più tardi precipitava a 3.300. Il periodo 1957 - '60, però, fu contrassegnato da numerose opere pubbliche: nuove strade per unire alcune frazioni tra loro e al capoluogo, ristrutturazione della viabilità esistente, costruzione di ponti, acquedotti, reti fognarie, elettrodotti, scuole, linee telefoniche, sistemazione urbanistica di Vetto e delle frazioni principali. All'inizio degli Anni Sessanta, il boom economico italiano, pur non bloccando l'emigrazione e il pendolarismo dei vettesi, li ha avviati all'ammodernamento dell'agricoltura, al risveglio dell'artigianato, al decollo di un turismo che può contare su attrazioni naturali come l'Enza e le pendici boscate del Faille. Dopo il "decennio d'oro" dell'economia locale, 1969 – '78, e la recessione degli Anni Ottanta, adesso Vetto tiene il passo dei centri più evoluti dell'Appennino reggiano grazie alla produzione di ottimo Parmigiano – Reggiano, di valide strutture ricettivo – sportivo – ricreative, ad un turismo estivo e "di passaggio" consolidati e ad un artigianato produttivo e di servizio abbastanza ramificato.
Nel secolo scorso, salvo rarissime eccezioni, famiglie patriarcali di Vetto lavoravano una terra spesso strappata ai greti dell'Enza e del torrente Lonza o ai boschi che, nel 1876, si estendevano per oltre 481 ettari. Oltre al frumento e al granoturco (dai quali si ottenevano pane e polenta) i contadini "curavano" in modo speciale il castagno che dava castagnaccio, pane, sughi, balleri, polenta, caldarroste e serviva per la costruzione di doghe per le botti, di attrezzi agricoli e mobili, soprattutto di madie e cassapanche. Se l'annata era buona, il 28 ottobre andavano a vendere i marroni alla Fiera di San Simone, a Montecchio. Di solito, le castagne venivano essiccate in edifici rustici, chiamati "metati", in cui il fuoco era sempre acceso e, nelle lunghe serate autunnali, era attorniato da paesani che si riunivano per chiacchierare, ridere, scherzare, cantare e raccontare fole. A supporto dell'agricoltura e della silvicoltura (sovente, il legname tagliato nelle macchie di Gottano veniva "fluitato" lungo l'Enza e fatto arrivare a Ciano o a San Polo dov'era messo in vendita o portato a Reggio o nei maggiori centri della pianura) c'era la pastorizia. Poca cosa, in verità, perchè, se diverse famiglie allevavano le pecore, il numero di capi era sempre molto limitato e, di solito, strettamente sufficiente a fornire il latte ai bambini e la lana da cui ricavare maglie ed altri indumenti per grandi e piccini. A quest'ultima esigenza erano collegati "il filino" (la sera, soprattutto d'inverno, le donne di ogni borgata si riunivano in una casa o in una stalla e filavano, sino a tarda notte, chiacchierando o cantando) e la tessitura, tradizioni scomparse verso il 1950 – '55. La crescita demografica dell'inizio del Novecento spinse parecchi vettesi ad emigrare in Francia dove trovarono lavoro specialmente nelle cave di pietra di Dramont, vicino a Saint Raphael. La fatica era estenuante, ma i "palanconi" d'argento che, almeno una volta all'anno, riuscivano a portare in patria permettevano ai loro famigliari di sopravvivere con minori preoccupazioni, di acquistare un pezzo di campo o un bosco o un paio di mucche o di sistemare la casa. I più fortunati riuscirono a farsi assumere in cantieri edili o in ristoranti di Parigi e Versailles e, a distanza di qualche anno, vi trasferirono l'intero nucleo familiare. La "via francese" restò aperta fino allo scoppio della prima guerra mondiale, allorchè gli eventi bellici, richiamando in Italia molti emigrati ed obbligando diverse "leve" di giovani a raggiungere il fronte, provocarono una miseria ancor più nera. Intanto, per rafforzare i collegamenti tra Vetto e il dirimpettaio Comune parmense di Neviano degli Arduini, venne "gettato" sull'Enza il "Ponte del Pomello", ultimato nel 1914. Negli Anni Venti, cominciò poi quell'emigrazione a Milano che, rafforzatasi negli Anni Cinquanta, è ormai finita. Questa volta, non furono i padri ad andarsene, ma i figli, generalmente "bocia" o ragazze di 13 – 17 anni. I primi facevano i lavapiatti, i garzoni al "verziere" o in botteghe artigiane, gli operai; le seconde prestavano servizio (come domestiche, cameriere o "balie asciutte") nelle case dei benestanti. Il periodo fra le due guerre vide l'affermazione dei "piciarìn", gli scalpellini che lavoravano le pietre estratte e tagliate (già alla fine dell'Ottocento) specialmente dalle cave del Faille e di Tizzolo ed apprezzate per essere "vive", d'un bel colore azzurrognolo, uniforme, senza venature o striature ed adattissime ad essere ridotte, con mazza e cunei e senza sprechi, in blocchi quasi squadrati alla perfezione. Da questi parallelepipedi, gli artigiani – artisti locali ricavavano, con martello e scalpello, "bolognini" e angolari per case e chiese. Dalle pietre di maggior dimensione, ottenevano pezzi per costruire portali e archivolti di dimore patrizie in tutto il Reggiano ed anche in altre province e per erigere monumenti ai caduti, come quello che domina Castelnovo Monti. Per apprendere o per insegnare i segreti del mestiere, vennero quassù abili scalpellini anche dal Modenese, dal Parmense e dal Veneto. Terminato il secondo conflitto mondiale, la "ricostruzione" fu lenta e difficile: l'economia languiva, le iniziative pubbliche e private erano scarse, l'agricoltura poco redditizia. L'emigrazione restava una delle poche valvole di sfogo ai tanti problemi socio – economici che si erano creati. Così, se nel 1951 la popolazione sfiorava i 4.000 abitanti, dieci anni più tardi precipitava a 3.300. Il periodo 1957 - '60, però, fu contrassegnato da numerose opere pubbliche: nuove strade per unire alcune frazioni tra loro e al capoluogo, ristrutturazione della viabilità esistente, costruzione di ponti, acquedotti, reti fognarie, elettrodotti, scuole, linee telefoniche, sistemazione urbanistica di Vetto e delle frazioni principali. All'inizio degli Anni Sessanta, il boom economico italiano, pur non bloccando l'emigrazione e il pendolarismo dei vettesi, li ha avviati all'ammodernamento dell'agricoltura, al risveglio dell'artigianato, al decollo di un turismo che può contare su attrazioni naturali come l'Enza e le pendici boscate del Faille. Dopo il "decennio d'oro" dell'economia locale, 1969 – '78, e la recessione degli Anni Ottanta, adesso Vetto tiene il passo dei centri più evoluti dell'Appennino reggiano grazie alla produzione di ottimo Parmigiano – Reggiano, di valide strutture ricettivo – sportivo – ricreative, ad un turismo estivo e "di passaggio" consolidati e ad un artigianato produttivo e di servizio abbastanza ramificato.
Comune:
VETTO D'ENZA
Piazza Caduti di Legoreccio, 1, 42020 Vetto d'Enza (RE)
0522 815222 , 0522 815694
info@comune.vetto.re.it
www.comune.vetto.re.it
Ultimo aggiornamento: 12 Dicembre 2023